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Centoquindici anni fa, il 27 giugno del 1905, il rancio servito ai soldati della grande nave da guerra prevedeva un menù di carne in brodo avariata, nella quale nuotavano i vermi. Il marinaio Grigorij Vakulenčuk prese il suo piatto e lo scagliò con violenza sulla parete, dando inizio al violento ammutinamento.
Mentre l’Ottocento tramontava lentamente, donando all’Europa il seducente periodo della Belle Époque, l’immenso Impero cinese cadeva agonizzante sotto i colpi delle cannonate giapponesi. La Cina, sconfitta, venne depredata e la mania di grandezza della potente Russia, guidata da Nicola II, spinse i soldati dello zar fino alla regione della Manciuria, nel territorio nord-est della Cina. Contesa sia dall’Impero zarista che da quello nipponico, il contrasto per la Manciuria diede inizio alla guerra russo-giapponese. Il primo attacco nipponico fu devastante. Nel febbraio del 1904, senza alcuna dichiarazione di guerra, la flotta del Sol Levante attaccò quella russa nell’oceano Pacifico, respingendola fino a Port Arthur, all’estremità meridionale della Manciuria e assediando la città per quasi un anno. Sorpresi dalle abilità belliche giapponesi, i russi nel maggio 1905 inviarono la flotta nel Mar Baltico.
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Dopo un lunghissimo viaggio, dopo aver circumnavigato l’Africa e l’Asia, le navi russe vennero distrutte presso l’isola di Tsushima dall’energica marina dell’imperatore Meiji. I malumori si moltiplicarono e la sconfitta fu un forte trauma che scosse il popolo russo, aggravando le tensioni interne. Generali e soldati si rimbalzavano le colpe e nelle botteghe di tutto l’Impero, sottobanco, le mercerie cominciavano a vendere le proibite bandiere rosse. Ma la guerra non era ancora finita e una nave da guerra russa era stata inviata nel Mar Nero, nell’isola di Tendra, in attesa di essere raggiunta dal resto della flotta e tentare un ultimo, disperato assalto contro la marina giapponese. La corazzata era il gioiello della flotta russa. Tredicimila tonnellate di peso, centotredici metri di lunghezza e quasi ottocento uomini di equipaggio. Stava ferma e solenne, ancorata sulla spiaggia, mentre un forte vento sollevava grossi cavalloni verdastri che s’infrangevano violentemente sulla corazzatura d’acciaio della nave che prendeva il nome dal principe di Tauride, Knjaz’ Potëmkin.
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Il mare in quei giorni era in burrasca e la grande tempesta quasi impedì all’equipaggio della silurante di scorta, all’alba del 27 giugno, di portare a bordo i rifornimenti di viveri. Alle 12, il sole era oscurato da un minaccioso cielo scuro e l’aria calda e sciroccosa asciugava la biancheria stesa sul ponte della nave. Il primo ufficiale, Ippolit Giliarovskij, da sopra una torretta, agitando un bastone dal pomo dorato, si rivolse all’equipaggio: “Sono le 12. Il rancio è pronto”. I soldati, affamati, si precipitarono verso la grande sala che precedeva la cambusa, come tante formiche verso la propria tana. L’equipaggio aspettava il cibo in religioso silenzio, quando un odore greve, maleodorante, all’improvviso investì la sala. Era il fetore della carne marcia che i cuochi avevano appena cucinato, e che servivano allo stupito equipaggio. Il marinaio Grigorij Vakulenčuk prese il suo piatto e lo scagliò con violenza sulla parete, coprendo il pavimento di carne putrida e di vermi. Il gesto venne ripetuto da altri membri dell’equipaggio e tutti gli insorti vennero portati sul ponte della nave per l’esecuzione capitale. Il capitano Evgenij Golikov comandava il plotone d’esecuzione, il quale disobbedì e scagliò le pallottole contro lo stesso ufficiale, dando il via all’ammutinamento della corazzata Potëmkin. Dalla spiaggia, numerosi civili russi raggiunsero la nave per aiutare gli insorti.
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La popolazione, incuriosita, osservava gli eventi da una grande scalinata, un gigantesco palco teatrale da dove osservare l’intero porto e lo spettacolo della rivolta. La polizia zarista intervenne; sbarrò le strade, si posizionò in cima all’altissima scalinata e fece fuoco sui civili inermi, uccidendo uomini, donne, vecchi e bambini. Dalla corazzata Potëmkin, nella cui poppa era stata issata una grande bandiera rossa, vennero sparate decine di cannonate, le quali colpirono gli uomini dello zar e il loro quartier generale. La città fu conquistata e il portavoce dei rivoltosi, Afanasij Matjušenko, attese l’arrivo della truppa imperiale che, anziché eseguire gli ordini di Mosca, lasciò passare la nave. Tra il tripudio generale e le bandiere rosse che sventolavano su tutta la nave, la corazzata Potëmkin lasciava il porto, dando il via alla rivoluzione russa del 1905.
Stefano Poma
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