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La camera di Pavese e il mestiere di scrivere
Articolo tratto dal sesto numero de ยซIl Caffรจยป del quattordici novembre 2020.ย
ยซSi era tolto le scarpe, teneva un braccio piegato sotto la testa e un piede che penzolava fino a toccare il pavimento. Venti bustine vuote di sonnifero, chiari indizi di volontร suicida, furono trovate sulla mensola del lavabo insieme ad alcune cialde. Sul davanzale della finestra si volatizzarono gli apparenti resti di una lettera inceneritaยป. Dove collocare il suicidio di Cesare Pavese a settantโanni dal tragico gesto. ยซNon parole. Un gestoยป, scrive in โIl mestiere di vivereโ. Quante bustine di sonnifero ingerirebbe oggi Pavese? Tante volte, arrivando alla stazione Porta Nuova di Torino, ho cercato di rispondere allโangosciante domanda e di immaginare la stanza 43, oggi 346, dellโHotel Roma, nella quale lo scrittore decise di farla finita. Giorni fa ho smesso di immaginare e ho chiesto di vederla. Sono entrato in punta di piedi, quasi temendo di disturbare, senza alcuna intenzione di fare pettegolezzi. Quasi tutto, tranne il bagno, รจ rimasto comโera. Ancora funzionante, ecco il telefono nero, a muro, accanto al letto. Fu usato per le ultime chiamate agli amici piรน cari. Senza risposte. Erano tutti fuori cittร . Sul comodino รจ come se vedessi ancora la copia dei โDialoghi con Leucรฒโ, dove scrisse: ยซPerdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezziยป. Per un attimo vorrei sedermi sulla poltrona rossa ma non oso. La finestra apre su Piazza Carlo Felice, un vociare di studenti giunge dalla strada. Quella notte, tra il 26 e 27 agosto del 1950, Pavese si fermรฒ a venti, come racconta la cronaca di Lorenzo Mondo. Venti micidiali bustine e furono piรน che sufficienti. Ma oggi, oggi che la vita non รจ piรน vita, oggi che la perdita di senso sembra aver annichilito le coscienze, oggi che un paese ci vorrebbe, ยซnon fosse che per il gusto di andarsene viaยป, oggi che in libreria non trovo piรน romanzi come โLa luna e i falรฒโ, romanzo favoloso e irripetibile, come puรฒ essere favolosa e irripetibile la scrittura lieve e profonda di uno scrittore immenso, unico, il piรน grande del nostro Novecento, quante bustine ingerirebbe? Quante? La domanda riaffiora assillante, ossessiva, come un tormento o un vizio assurdo. Prima di tornare in albergo, forse solo per ritardare il gesto, Pavese si recรฒ allโUnitร , che si stampava in corso Valdocco, allโangolo di via Garibaldi, nel palazzo della Gazzetta del Popolo.
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Lo racconta Paolo Spriano in โLe passioni di un decennio (1946-1956)โ: ยซEra molto pallido, smagrito, ma la sua visita aveva lโaspetto abituale di un saluto. Mi cercรฒ e si trattenne al giornale per un paio dโore, dopo la mezzanotte. Il mio rapporto con lui era quello che un giovane compagno, un ammiratore, un ragazzo dei suoi paesi, poteva avere verso chi era giร una forte personalitร , culturale e politica insiemeยป. Il mestiere di vivere gli divenne dapprima faticoso, poi insopportabile. Quando qualcuno si uccide, inevitabilmente si va in cerca delle cause che hanno scatenato il gesto. Si parlรฒ del dolore per essere stato abbandonato da Constance, la giovane americana con le efelidi rosse, ma Pavese, il 25 marzo, scrisse: ยซNon ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perchรฉ un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nuditร ; miseria, infermitร , nullaยป. Si parlรฒ di totale esaurimento, di voglia di autodistruzione, perchรฉ Pavese, il 27 maggio, scrisse: ยซAdesso a modo mio sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa e mi sono impegnato in una responsabilitร politica che mi schiaccia. La risposta รจ una sola: suicidioยป. Si parlรฒ di ragioni ideologiche perchรฉ Pavese, il 14 luglio, quando era giร scoppiata la guerra in Corea, scrisse: ยซCi siamo. Tutto crollaโฆ Lo stoicismo รจ il suicidio. Del resto sui fronti la gente ha ricominciato a morireยป. Perchรฉ, allora, compรฌ quel gesto? Un comunista non si uccide, si dicevano Spriano e i suoi compagni. Forse, quel partito comunista e il modo di far politica di quel partito comunista non entusiasmavano Pavese? Forse, appunto. Spriano riferisce che qualche giornale dello schieramento avverso accennรฒ a una crisi politico-ideologica, ma senza molta convinzione. Davide Lajolo, suo biografo, insistette sulla forte depressione accumulata. Italo Calvino (che secondo Luca Doninelli, pur esprimendo una letteratura enormemente piรน bella di quella di Pavese, non riesce tuttavia altrettanto grande) suggerรฌ che lo scrittore si uccise perchรฉ i suoi amici imparassero a vivere. In una lettera, infatti, datata Torino 15 settembre 1950, lโautore di โLe cittร invisibiliโ precisรฒ: ยซ… Io credo che il suicidio di Pavese, il modo con cui lui cโรจ arrivato non possa essere affatto visto come un male infettivo; non รจ un gesto che chiunque possa permettersi (per lui era uno dei motivi dominanti della vita); la sua disperazione non era di vanitร del vivere, ma di non poter raggiungere quella interezza di vita che desiderava e che finรฌ – ma non poteva giustificarlo che lui solo – per cercare nella morteโฆ ร la storia della lotta di un uomo cui vivere era difficilissimo, per inserirsi nella vita o per vivere abbastanza e dire abbastanza per poter morireยป.
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Niente crisi politiche, dunque, e dramma sentimentale inteso al limite come ultima goccia di un recipiente giร colmo. Ha scritto Natalia Ginzburg: ยซPavese era, qualche volta, molto triste: ma noi pensammo, per lungo tempo, che sarebbe guarito da quella tristezza, quando si fosse deciso a diventare adulto: perchรฉ ci pareva, la sua, una tristezza come di ragazzo, la malinconia voluttuosa e svagata del ragazzo che ancora non ha toccato la terra e si muove nel mondo arido e solitario dei sogni. Qualche volta, la sera, ci veniva a trovare: sedeva pallido, con la sua sciarpetta al collo, e si attorcigliava i capelli o sgualciva un foglio di carta; non pronunciava, in tutta la sera, una sola parola; non rispondeva a nessuna delle nostre domande. Infine, di scatto, agguantava il cappotto e se ne andavaยป. Cosรฌ lo ricorda Franco Ferrarotti: ยซNon ho mai smesso di pensare a Cesare. Cโerano ventโanni di differenza. Era un uomo molto schivo, complesso, che amava depistare, prendersi gioco, lui contadino langarolo, degli urbanizzati. Non lo hanno compreso, nรฉ prima nรฉ dopo. Era attirato e spaventato dalle donne, ma non si รจ ucciso per una donna. Era un credente mitico, ossessionato dalla colpa, un pre-religioso con il senso del mistero e di ciรฒ che era antico e legato alla tradizione. In fondo, mi diceva, non facciamo altro che scrivere per raccontarci a noi stessi, per cercare di venire in chiaro. Il mito ci fa vivere il racconto dei racconti ma non possiamo comprenderlo. Nellโimpossibilitร di conciliare mito e ragione cโรจ la fine di Pavese, la sua morte. โVerrร la morte e avrร i tuoi occhiโ. Stai attento che arriva! ร questo il monito. โPaesi tuoiโ, โDialoghi con Leucรฒโ e โLa luna e i falรฒโ sono i suoi capolavori, insieme a โLavorare stancaโ, la grande poesia epico-narrativaยป. Netto, lucido, appare il divario tra il suo modo di intendere la vita e i rapporti con la realtร che si trovรฒ di fronte. Ne derivรฒ una brutale sofferenza per lโincapacitร di comunicare con gli altri. E non si puรฒ dire che Pavese non avesse compiuto sforzi per realizzare una comunicazione almeno accettabile, ma piรน lui tentava di avvicinarsi piรน la realtร si allontanava. Quasi per dispetto, per derisione. E al dispetto e alla derisione si puรฒ anche rispondere con il suicidio. Quando qualcuno decide di chiudere la propria vita (o la propria morte), giovane o anziano che sia, รจ bene rifugiarsi nel silenzio, in quellโassenza della parola dovโรจ possibile trovare non la risposta (non ci sono risposte), ma lโattesa. Lโattesa di una nuova domanda. Di vita.
Davide D’Alessandro
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E buona lettura.