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«Il Caffè», una nuova avventura editoriale
Il futuro dell’editoria italiana parte da qui.
Quando verso la fine del 1993 Silvio Berlusconi, editore de «Il Giornale», decise di entrare in politica per prendere il posto dei suoi padrini politici strappati da Palazzo Chigi dall’inchiesta Mani Pulite di Milano, il direttore del quotidiano, Indro Montanelli, decise di lasciare il giornale che aveva fondato vent’anni prima. Nell’editoriale d’addio del 12 gennaio il più grande giornalista italiano del Novecento – il riconoscimento di miglior direttore e impresario del giornalismo va di diritto al maestro Leo Longanesi – scrisse che l’editore non l’aveva cacciato, ma che aveva deciso di lasciare quello che poco tempo dopo definì “un figlio drogato” per sopravvenuta incompatibilità e che era forte in lui la triste certezza che i fantasmi del nuovo partito Forza Italia si sarebbero presto aggirati per i corridoi della sede di via Negri. Col contributo di Victor Uckmar e Luciano Consoli della Piemmei, la prima public company editoriale italiana, fondò un nuovo quotidiano, «La Voce», che approdò in edicola il 22 marzo 1994. Durò un solo anno. Un anno in cui le pagine del quotidiano venivano colorate da vivaci richiami ai valori della legalità e al perverso rapporto – ma in Italia sempre di casa – tra affari e politica.
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«La Voce» di Montanelli, così come avvenne per quella di Giuseppe Prezzolini, non fu capita. Combatteva, da destra, un governo che ne pretendeva la qualifica e la lotta alle prime leggi ad personam, come quella di cancellare la carcerazione preventiva per i reati di corruzione, portò qualche ingenuo ad accusare Montanelli di essere diventato giustizialista e perfino di sinistra. Montanelli dapprincipio non fu entusiasta di fondare «La Voce». Pensava, in realtà, a un settimanale. Ne aveva già discusso con Rizzoli, il quale dimostrò un certo entusiasmo nell’abbracciare il nuovo progetto montanelliano. Il modello sarebbe stato «Il Mondo» di Mario Pannunzio, settimanale che a suo tempo fece invidia perfino a Longanesi, l’innovatore dell’editoria italiana. Lo stile doveva essere sobrio, austero, indipendente, senza padroni e di conseguenza coi costi ridotti all’osso. Aveva perfino già trovato il nome: «Il Caffè».
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Ed è così che abbiamo deciso di chiamare la nostra rivista. «Il Caffè» non richiama la bevanda di origine etiopica, sia chiaro, ma quello delle eleganti caffetterie che nei magici anni della Belle Époque ospitavano intellettuali e artisti, letterati e vagabondi, personalità politiche e avventurieri. I quali, adagiati in ricamate sedie in stile liberty dalle forme floreali, tra vivaci lanterne accese decorate d’oro e animali esotici di porcellana bianca, discutevano di fatti presenti e passati, raccontavano storie di vita, passioni, malumori e amori. Una palestra del libero pensiero che noi vogliamo riportare alla luce, per piacere nostro e dei lettori; un racconto dei fatti accompagnato a uno scambio costruttivo di opinioni, tra gente diversa con idee diverse e senza quelle affannose e ridicole discussioni polemiche che servono a chi non ha cultura per fingere di averne una.
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Non abbiamo una sede fisica, viviamo tutti in città diverse e le nostre riunioni avvengono online. Abbiamo bassissimi costi di gestione e di conseguenza possiamo permetterci di non avere né padroni né padrini da incensare e imbellettare. Senza nutrirci coi frutti di quell’albero marcio che cresce sul terreno concimato da sensazionalismo e populismo, cerchiamo di esprimere le nostre critiche e le nostre convinzioni nella maniera più educata che ci è possibile, tenendo gli urli e il torpiloquio bloccati in gola. Ci concediamo qualche idea politica costruttiva che porti al dialogo, ben sapendo che destra e sinistra non esistono più, sono idee rimaste sepolte sotto il muro di Berlino.
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Oggi si ha fame di grandi imprese e quando la modernità viene snobbata in nome di un concetto conservatore è proprio quel principio che si vuole conservare che muore. Le tante diversità paesane, le piccole grandi tradizioni rurali spariscono dietro il paravento di un insano scetticismo. La nostra cultura, i nostri antichi oggetti fatti a mano e il profumo del buon vino fatto in casa verranno presto dimenticati se i mezzi con i quali narrare e trasmettere questi nostri capolavori non verranno compresi. E chi si ricorderà, tra un secolo, della straordinaria storia d’Italia dal Risorgimento fino alla poesia di quell’anima vaga che era Gabriele D’Annunzio?
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Se la stampa italiana è moribonda e quasi tutti i giornali sono in perdita lo si deve a chi non è riuscito a guardare oltre il proprio naso, ad andare avanti per oltre un secolo senza evolversi, continuando a mettere le mani sulla stessa carta che leggevano i nostri trisnonni nell’Ottocento. Il vecchio sistema di stampa è finito e va avanti soltanto poiché nessuno ha la saggezza per fermarlo. Noi de «Il Caffè» facciamo della modernità e delle opportunità che questa ci offre una preziosa alleata e il nostro modello di stampa è quello che tutti i giornali utilizzeranno tra – presumiamo – almeno cinquant’anni, anticipando un processo che la pandemia ha fortemente accelerato.
Le copie de «Il Caffè» vengono stampate e spedite quando il lettore le acquista per poi essere consegnate il giorno successivo a domicilio dal corriere, risparmiando di conseguenza sulla carta che verrebbe sprecata per stampare eventuali copie invendute. Tutte le vecchie copie de «Il Caffè» saranno sempre disponibili nel tempo per la gioia dei collezionisti e, l’elegante rivista, dallo stile minimale ed essenziale, è come un piccolo libro che dopo aver letto non getterete nella spazzatura insieme alle altre riviste, ma la custodirete gelosamente nella vostra libreria, vicino ai libri che vi hanno fatto sognare.
Stefano Poma
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E buona lettura.
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